Verona, 9 dicembre 2020

Gentile Ministra, gentili membri del Governo,

A quattro anni dalla sua approvazione, quali sono gli effetti della Legge 199/2016, più nota come legge anti-caporalato?

Essa ha certamente migliorato gli strumenti penali di contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro che erano stati previsti dalla precedente legge del 2011, che aveva introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano il reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. A fine 2019 si contavano infatti 214 inchieste e 46 processi intrapresi da 24 Procure, che peraltro nel 55% dei casi non riguardavano il Mezzogiorno né interessavano solo l’agricoltura (con 97 casi legati ad altri comparti produttivi). 

Ad oggi, però, uno sguardo proprio ai territori per i quali la legge 199 è stata formulata – e ad altri nei quali l’agricoltura intensiva richiede manodopera soprattutto stagionale, flessibile e a basso costo, come il metapontino e l’Alto Bradano in Basilicata, il trapanese e il saluzzese in Piemonte – mostra che, nei campi, la condizioni di lavoro e di vita dei braccianti stranieri sono cambiate davvero poco. I braccianti continuano ad abitare soprattutto nei ghetti, i caporali e i loro aiutanti continuano a guidare i furgoni che portano i lavoratori nei campi, le paghe orarie e a cottimo non sono aumentate. La pandemia da Covid19 ha ulteriormente peggiorato la situazione, esponendo i lavoratori a nuovi rischi sanitari.

Cosa non va? È evidente che un approccio puramente repressivo allo sfruttamento lavorativo non è sufficiente. Non serve a molto arrestare i caporali e mettere sotto sequestro i loro furgoni, se non si varano allo stesso tempo politiche per fornire servizi adeguati a lavoratori e aziende agricole, in modo che essi non siano dipendenti dai caporali. È poco utile fare indagini sui caporali se allo stesso tempo non si individuano modelli di gestione del lavoro che assicurino efficacemente il rispetto dei contratti, e se non si organizza una adeguata rete di trasporto pubblico o privato per i lavoratori; è inutile sgomberare i “ghetti” – come hanno fatto amministrazioni locali di destra e di sinistra – se non viene garantita una adeguata sistemazione abitativa ai lavoratori stagionali che ogni anno tornano sul territorio nel periodo della raccolta.

Da questo punto di vista, l’articolo 8 della legge 199 indicava una strada molto timida: la costituzione di sezioni territoriali della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, che avrebbero dovuto promuovere “modalità sperimentali di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro nel settore agricolo” e “iniziative per la realizzazione di funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro”.

Ebbene, a quattro anni di distanza da quella legge, si sono costituite pochissime sezioni territoriali e le iniziative promosse sono state per lo più fallimentari.

Quindi ad ogni caporale arrestato se ne è probabilmente sostituito un altro, a fornire servizi analoghi. Ma, soprattutto, la legge 199/2016 non incideva in nessun modo su altre due questioni fondamentali, connesse allo sfruttamento del lavoro in agricoltura.

La prima questione riguarda la vulnerabilità dei lavoratori migranti: lo status legale fragile di molti migranti è infatti una delle prime cause dello sfruttamento. Tra i lavoratori stagionali vi sono moltissimi richiedenti asilo o titolari di permessi di protezione internazionale che rischiano di cadere nell’irregolarità o vi sono già caduti. I cosiddetti “decreti sicurezza” varati da Matteo Salvini nel 2018 e 2019 per riformare i permessi umanitari e il sistema nazionale di accoglienza ai richiedenti asilo hanno ulteriormente peggiorato questa vulnerabilità. Né la “sanatoria” varata dal Governo Conte II a maggio 2020, nell’ambito del “Decreto Rilancio”, né la cosiddetta riforma dei decreti sicurezza hanno avuto effetti positivi da questo punto di vista, come testimoniano le attività sul campo e le indagini del sindacato USB e di altre reti di solidarietà che si impegnano sul territorio.

La seconda questione riguarda gli squilibri di potere nelle filiere agroalimentari: è ormai risaputo che la compressione del costo del lavoro agricolo è dovuta anche alla pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie di trasformazione e catene della grande distribuzione. Soggetti che, forti delle loro dimensioni e della loro posizione dominante sui mercati, riescono a imporre prezzi e standard di produzione alle aziende agricole italiane, le quali a loro volta spesso comprimono il costo del lavoro. Questo non giustifica i datori di lavoro che sfruttano i lavoratori; tuttavia, su questi squilibri di potere è necessario agire, se si vuole migliorare la situazione dei braccianti.

Per tutti questi motivi, la legge 199/2016, pur importante, non è sufficiente per affrontare in maniera strutturale le cause dello sfruttamento lavorativo in agricoltura.

Altre misure sono necessarie e auspicabili, e tra queste senza dubbio vi è la piena applicazione del principio della condizionalità sociale prevista dalla nuova PAC. Si tratta di emendamenti approvati dal Parlamento Europeo, ma che potrebbero essere proprio in queste settimane rimessi in discussione dall’attuale tornata di negoziati tra Commissione, Parlamento e Consiglio Europeo, il Trilogo.

Eppure, come movimenti contadini e sociali che ne hanno sostenuto l’inserimento e l’approvazione, è nostro dovere proteggere i risultati finora ottenuti, che pongono le basi di nuovi e significativi strumenti. È infatti prevista per la prima volta, ad esempio, la possibilità di presentare un ricorso diretto degli agricoltori alla Commissione in caso di violazione dei diritti umani fondamentali, di intimidazioni e minacce della criminalità organizzata, di operazioni di accaparramento di terre e di gravi negligenze regolatorie da parte delle autorità nazionali.

In più, viene introdotto nell’ordinamento della PAC un sistema sanzionatorio “proporzionato ed efficace” chiamato ad intervenire sull’uso illecito dei fondi europei. È giunto il momento di collegare finalmente la condizionalità ad un sistema di controllo legato alla dimensione aziendale e del fatturato delle aziende. La gravità della violazione dei diritti dei lavoratori è la stessa ad ogni scala, ma è giusto che vi siano misure di controllo e sanzioni commisurate alla dimensione aziendale, con conseguente storno dei fondi UE assegnati.

A questo punto, è cruciale non solo che il principio della condizionalità sociale venga mantenuto e difeso in sede europea, ma che il processo di implementazione nazionale, attraverso i Piani Strategici Nazionali, sia portato avanti con convinzione ed efficacia. I segnali che arrivano dal Ministero dell’Agricoltura, purtroppo, non sono dei migliori. La condizionalità sociale è uno strumento potente per i lavoratori, che preoccupa chi vede nella gestione del lavoro un mero tassello della “catena di valore” su cui scaricare la “competitività” delle impresse agricole.

Abbiamo il diritto, come cittadine e cittadini, lavoratrici e lavoratori, contadine e contadini, di sapere se il Governo italiano sosterrà o meno la condizionalità sociale con il suo voto nei negoziati europei. 

Chiediamo che il Governo si adoperi per l’adozione e l’implementazione dei principi contenuti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei contadini e di altre persone che lavorano in zone rurali del 2018 (UNDROP).

Chiediamo infine che il lavoro dei tavoli nazionali e regionali sui nuovi Piani Strategici sia aperto e trasparente, cosa che ad oggi è lungi dall’essere vera, e che un’adeguata rappresentanza di organizzazioni locali, in particolare quelle contadine, possa avere la possibilità di partecipare, esprimersi e vigilare sull’implementazione equa e giusta dei migliori principi della nuova PAC.

 

Fabrizio Garbarino

Presidente Associazione Rurale Italiana

 

Per adesioni e informazioni: info@assorurale.it